Andrea Aprea, l’intensità come regola di vita

Condividi

“Io le cose o le faccio intense, oppure non le faccio proprio”. Da questo assunto si potrebbe partire per raccontare Andrea Aprea, lo chef che a luglio 2022 ha inaugurato il ristorante che porta il suo nome all’ultimo piano della Fondazione Luigi Rovati, conquistando due stelle Michelin. Padre, tifoso del Napoli e appassionato di viaggi, ha scelto Milano come città d’adozione e la cucina come forma di espressione più naturale.

Lei dice spesso di essere rigoroso, ma anche molto emotivo. Come convivono questi due lati nella vita di tutti i giorni?

Sono rigoroso in tutto, non solo al lavoro, e faccio le cose in modo intenso. È proprio una forma mentis. Se devo iniziare qualcosa “tanto per”, mi pesa. Preferisco non farla. Questo, secondo me, si legge sia fuori che dentro la cucina: quando sono nel tunnel del lavoro vado come un treno, a testa bassa, ma poi so anche concedermi i miei spazi personali, per svagarmi.

Come si rilassa uno come lei, che vive di intensità?

Il modo migliore per staccare è viaggiare. Fin da piccolo ho vissuto il viaggio come la forma di pausa più efficace, quella che mi permette di spegnere la mente. Scoprire cose nuove mi porta su un piano diverso rispetto al lavoro. Faccio due, tre viaggi all’anno e cerco sempre mete nuove. Poi mi capita di tornare in alcuni posti, certo, ma la tendenza è esplorare.

C’è un viaggio che ha cambiato il suo sguardo?

Quando lavoravo all’estero, a ventidue anni, sono andato in Malesia e ci sono rimasto due anni. Una cosa è fare dieci giorni in un paese, un’altra è viverci. Impari davvero. Adoro la cucina asiatica, ma non voglio trasferire direttamente quelle esperienze nei piatti. Ho sentito a un certo punto l’esigenza di capire chi sono, qual è la mia identità. In anni in cui tutto era fusion, io dicevo: voglio fare cucina italiana. È stata una presa di posizione.

Milano è la città dove ha espresso gran parte del suo percorso. Che rapporto ha con lei, oltre il lavoro?

Andrea-Aprea-chef-intervista-4-forbes-italia

Ho creduto in Milano in un momento particolare, nel 2010, negli anni dopo il crack finanziario. Non erano tempi semplici, ma dentro di me sentivo che era l’unica città italiana con il potenziale per crescere davvero, la più cosmopolita. Ho investito qui quando in tanti non l’avrebbero fatto e oggi i risultati mi dicono che avevo ragione. Vivo a CityLife. Amo andare al Parco Sempione nelle belle giornate, la domenica di primavera, passeggiare in Brera quando non è troppo affollata, camminare lungo i Navigli nei momenti più tranquilli, e mi piace molto la zona di Porta Venezia. Mi muovo spesso in bicicletta: mi aiuta a pensare, mi stimola. È un modo per mettere in fila le idee prima di arrivare in cucina.

Com’è una sua giornata tipo, fuori dai riflettori?

Andrea-Aprea-chef-intervista-2-forbes-italia

La mia giornata parte da casa. Ho due figli: la grande va a scuola da sola, è indipendente. Il piccolo lo accompagno io perché mia moglie va presto al lavoro. Alle nove sono in ristorante. Tre volte a settimana vado in palestra: sono due ore che mi impongo di ritagliarmi perché lo sport mi cambia la testa, non solo il fisico. Quando faccio cardio, per esempio, affronto la giornata in modo diverso, mi innervosisco meno. Se quello che fai ti porta solo stress, a un certo punto ti devi fare delle domande. Io ho scelto di proteggere il mio equilibrio.

Ha mai immaginato una vita diversa, lontano dai fornelli?

Sì, probabilmente avrei fatto l’architetto. Mi appassiona il disegno, la geometria. Illustro i piatti, lavoro sulle forme. Mi piace l’architettura legata al design, non tanto quella strutturale. Ho un forte senso estetico e credo si veda. Nel ristorante ho lavorato a quattro mani con l’architetto: io avevo bisogno di lui su certi aspetti, lui di me su quelli funzionali. Sul taglio di una boiserie decide lui, ma sul modo in cui uno spazio deve funzionare per la cucina intervengo io. Mi affascinano anche la moda, le vetrine e gli interni. Mi piace quando un ambiente è pensato, non casuale.

Lavora in un luogo d’arte, dentro una fondazione. Che cosa le dà questo contesto?

Andrea-Aprea-chef-intervista-3-forbes-italia

Vivere e lavorare in uno spazio culturale è una fonte di ispirazione costante. Nel nostro Paese siamo circondati da bellezza e a volte ci abituiamo, quasi non ce ne accorgiamo più. Stare in mezzo alle opere ti obbliga a rinnovare il tuo sguardo. Il passaggio da un albergo a un luogo legato all’arte è stato importante: è un contesto che sento molto allineato alla mia cucina. Suggerisco spesso agli ospiti di visitare la fondazione prima della cena. E il bistrot dialoga ancora di più con questo mondo, con formule più informali che avvicinano pubblici diversi.

Napoli resta un punto fermo nella sua vita?

Assolutamente sì. Ho un legame fortissimo con il mio territorio d’origine. Vado spesso giù per la famiglia e per il calcio. Il Napoli è una parte importante della mia vita. Ho fatto trasferte a Cremona, Torino e in tante altre città. L’ultimo scudetto è stato un momento speciale: ho deciso di partire quasi all’ultimo, con un treno pieno, per esserci. Sono esperienze che condivido con mio figlio, momenti di complicità ed entusiasmo puro. Gli sto facendo vivere cose che io non avevo da bambino: lo stadio, gli spogliatoi, la maglia firmata dai giocatori. È un modo per creare ricordi.

Se dovesse paragonarsi a un ingrediente?

Il pomodoro, senza dubbio. È il frutto più bello da lavorare: è dolce, acido, sapido. Non è una zucchina o una melanzana che devi per forza trasformare. Se il pomodoro è buono, lo mangi così com’è. È folle, in senso buono. Poi noi in cucina lo lavoriamo in tanti modi, ma resta questo: un ingrediente che regge da solo, con una versatilità enorme.

Parliamo di cucina: come si traduce tutto questo nei percorsi che propone oggi al ristorante?

Caprese-dolce-e-salato-andrea-aprea

Oggi lavoriamo su tre percorsi. C’è un cammino che chiamo di contemporaneità, uno legato alle radici partenopee e uno che guarda ai piatti più maturi, frutto di una lunga analisi. Nel menu contemporaneo c’è, per esempio, un piatto che racconta bene il mio modo di cucinare oggi. Un petto di quaglia avvolto su se stesso, con crema di cavolfiore, cavolfiore acidulo, crema al caffè e salsa ai ricci di mare e ancora caffè. È un incontro tra mare, terra e tostature, dove la quaglia sorregge un trio di ingredienti importanti e il cavolfiore porta la parte dolce che armonizza il tutto.

Nel percorso Partenope l’uovo al purgatorio è diventato un po’ un manifesto. Che cosa rappresenta per lei?

È un piatto della memoria. Nasce da una preparazione povera e domestica e arriva in un contesto gastronomico mantenendo la sua anima. L’uovo di selva è cotto a bassa temperatura, alla base c’è pane croccante, poi una schiuma di pane e una salsa al purgatorio, tipica campana, fatta solo con pomodoro. Sopra una cialda di pane da rompere nel piatto. Il tema per me è doppio: da un lato il ricordo dell’infanzia, quello dei piatti “del giorno dopo” lasciati riposare, dall’altro la sostenibilità concreta. Il pane è tutto di recupero, in due versioni. Non buttiamo un granello. È un piatto semplice negli ingredienti – pane, cipolla, pomodoro, uova – ma molto goloso e, direi, quasi unanimemente amato. Quando un napoletano mi dice “mi hai fatto tornare bambino”, sento di aver centrato il messaggio.

E nel percorso Signature?

ri-sotto-marino-andrea-aprea

Un piatto che lo rappresenta è il Ri-Sotto-Marino. Nasce da una riflessione su un grande classico come il risotto alla pescatora, che nel Sud non ha mai avuto una vera tradizione perché il riso lì non è un ingrediente identitario. Sono partito da quell’idea con gli strumenti tecnici di oggi: abbiamo estremizzato il gusto dello iodio, concentrato i frutti di mare e inserito una parte dolce come il limone candito per creare un contrasto tra potenza e amabilità. È un piatto che gioca sulla mimetica, quasi nasconde il riso, ma in bocca è molto diretto. Tra i piatti che hanno segnato il mio percorso c’è anche la caprese dolce-salata: un involucro di zucchero soffiato ripieno di mozzarella, pomodoro e basilico. È nata come un gioco, dal desiderio di rileggere un grande classico.

Oggi, insieme all’uovo al purgatorio e ai percorsi degustazione, questo ultimo piatto racconta chi è Andrea Aprea. Un professionista che parte da ciò che ha vissuto, lo disegna, lo struttura e poi lo porta a tavola con la stessa intensità con cui affronta il resto della vita.

 

L’articolo Andrea Aprea, l’intensità come regola di vita è tratto da Forbes Italia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *