Che cosa rischieremmo se scoppiasse la bolla dell’intelligenza artificiale
Contenuto tratto dal numero di dicembre 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Avete in mano un biglietto della lotteria, e per non perderlo continuate a scommettere. È la promessa di guadagni infiniti grazie al dio di una nuova tecnologia: l’intelligenza artificiale generale, che farà mangiare la polvere a qualsiasi capacità dell’intelletto umano. Non è detto che ci si arrivi: per alcuni è un miraggio. Eppure qualcosa si intravede, e tanto basta per non fermare la corsa.
Euforia da IA
Da quando ChatGPT è apparso, nel 2022, la Borsa americana si è gonfiata come un pallone: +71% del valore complessivo, con l’indice S&P 500 che, a metà del 2025, valeva il 175% del Pil statunitense. Dieci aziende — da Nvidia ad Amazon, passando per Broadcom e Microsoft — spiegano più della metà di questa impennata. Tutte stanno cavalcando l’onda di un’eccitazione che sembra inarrestabile. Ma dov’è il confine tra euforia e follia?
Intendiamoci, i nuovi strumenti sono utili. L’intelligenza artificiale, che oggi è generativa (quindi non ancora generale – il vero Santo Graal), si sta diffondendo in fretta. ChatGPT, una delle applicazioni di maggior successo della storia, ha oggi più di 800 milioni di utenti. E anche se non ci sono effetti macroscopici sulla produttività, almeno ci sono avvisaglie: basta chiedere a un amico o a un collega e dirà che certe mansioni ora le svolge in un attimo.
I giganti del tech, però, sono convinti di avere tra le mani qualcosa di assolutamente trasformativo, forse più delle macchine della rivoluzione industriale. Nella prima metà del 2025 quasi tutta la crescita del Pil americano è venuta da investimenti in information technology. Un terzo dei fondi di venture capital occidentali è finito in startup legate all’intelligenza artificiale.
La realtà
Eppure la realtà dei bilanci è molto meno luccicante. I ricavi complessivi del settore IA ammontano a circa 50 miliardi di dollari l’anno, che è una goccia nell’oceano rispetto ai costi. Tra il 2025 e il 2028, secondo Morgan Stanley, verranno investiti 2.900 miliardi di dollari solo in data center, senza contare le spese energetiche. Il Mit calcola che il 95% delle aziende che ha investito in IA generativa ancora non ha visto un dollaro di ritorno economico.
Nel frattempo, come in un sortilegio, le quotazioni continuano a crescere. Nvidia ha toccato 5mila miliardi di dollari, OpenAI punta a una valutazione da 1.000 miliardi quando deciderà di quotarsi. Proprio il ceo di OpenAI, Sam Altman, alla domanda se ci sia un eccesso di entusiasmo per l’IA, ha risposto: “Sì, credo di sì”. Ma si stizzisce quando gli fanno notare che in casa sua i conti non tornano. Solo nell’ultimo trimestre la società ha perso 11,5 miliardi di dollari. Degli 800 milioni di utenti attivi di ChatGPT, un misero 5% paga l’abbonamento.
“Come può un’azienda con 13 miliardi di dollari di fatturato fare spese per 1.400 miliardi?”, ha domandato Brad Gerstner, podcaster e investitore. “Se vuoi vendere le tue azioni, ci metto un secondo a trovare chi le compra”, gli ha risposto Altman, tagliando corto, piccato.
Le lezioni della storia
Altman, in fondo, ha ragione: le bolle sono parte della storia del progresso. Una tecnologia dirompente fa correre l’entusiasmo più in fretta della realtà. Ma la correzione prima o poi arriva, e qualcuno resta con il cerino in mano. È già successo. Durante la bolla delle dotcom un’intera generazione di aziende si sbriciolò. Global Crossing fallì dopo aver steso troppi cavi in fibra ottica. Qualcuno ricorda Pets.com? Per un anno fu la star del nuovo capitalismo digitale. Amazon ne comprò il 50% lanciando una campagna pubblicitaria che finì pure al Super Bowl, il suo simbolo un pupazzo a forma di calzino parlante. Quando la startup si quotò al Nasdaq, nel febbraio del 2000, il titolo volava. Un anno dopo il collasso. Gli investitori avevano scambiato un’idea carina per un modello scalabile. Lo S&P 500 si dimezzò e ci mise sette anni a tornare al livello del 2000.
Ma la bolla non lasciò solo macerie. Internet cambiò davvero il mondo, e quei cavi posati troppo presto alla fine ci sono tornati utili: oggi fanno da spina dorsale a tutte le nostre connessioni. La stessa cosa è capitata con le bolle ferroviarie del XIX secolo in Gran Bretagna e Stati Uniti: colossali ricchezze andarono in fumo, però i treni sono rimasti e hanno fatto da volano all’industrializzazione. In quegli anni in America vennero fulminati interi patrimoni anche nelle aziende di elettricità, ma oggi nessuno vuole vivere al buio.
È probabile che l’IA si muova in modo simile. Il problema sarà anticipare e ammortizzare gli effetti dell’aggiustamento. In Inghilterra la bolla ferroviaria portò a una crisi economica intensa, ma tutto sommato breve. Negli Stati Uniti, al contrario, fece esplodere il ‘Panic of 1873’, una depressione di sei anni con un crollo del Pil del 14%.
Non sono le nuove dotcom
Dove si colloca l’intelligenza artificiale? Abbiamo chiesto un parere ad Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners, una società di gestione del risparmio con un portafoglio di circa 4,5 miliardi di euro. Fugnoli è anche autore della newsletter di strategia d’investimento Il Rosso e il Nero e del podcast Al 4° piano, in cui analizza i mercati finanziari.
“In realtà, a parte casi limite, i multipli delle grandi società tecnologiche non sono così esagerati come ai tempi della bolla delle dotcom”, spiega. “Sono elevati, certo, ma coerenti con la capacità di generare utili”. Queste società, continua Fugnoli, operano su un insieme di segmenti più tradizionali a cui si aggiunge il nuovo fronte dell’IA, che riescono a finanziare abbastanza agevolmente. Il discorso cambia per chi si è sviluppato solo intorno all’intelligenza artificiale. “Qui le leve sono molto più sbilanciate e ci sono rischi maggiori: se il mercato rallenta, il problema è immediato”.
Fugnoli non si stupirebbe se il governo americano sottoscrivesse aumenti di capitale in caso di crisi. D’altronde non c’è in ballo solo la stabilità finanziaria; l’IA ormai è un terreno di competizione tecnologica globale, che trascende perfino il duello tra Cina e Stati Uniti. E la speculazione è ingigantita proprio dai governi — dagli Stati Uniti di Trump ai paesi del Golfo — che pompano miliardi per conquistare la supremazia.
Ancora non siamo alle cifre delle ferrovie britanniche, i cui investimenti valevano il 15-20% del Pil nell’Ottocento. Ma se le previsioni sui data center sono corrette, i numeri esploderanno. Peraltro molte di queste spese sono su beni a rapido deprezzamento. “I nuovi chip di Nvidia saranno obsoleti fra qualche anno, e la stessa cosa vale per i data center”, dice ancora Fugnoli.
Il prezzo dello scoppio
È vero che le big tech, poco indebitate e con flussi di cassa enormi, possono permettersi di rischiare. Altri grossi investitori sono i fondi pensione, i fondi sovrani, le assicurazioni e i grandi patrimoni privati. Ma le famiglie americane non sono mai state così esposte alla Borsa. Negli ultimi 20 anni investire in finanza è diventato più facile, così è cresciuta la quota di ricchezza detenuta nel mercato azionario. È questa la principale novità.
Oggi circa 42mila miliardi di dollari – pari al 20% della ricchezza delle famiglie americane – sono investiti in azioni statunitensi: quattro punti percentuali in più rispetto alla bolla delle dotcom. Gli investitori stranieri, invece, hanno piazzato 18mila miliardi di dollari in titoli di Wall Street. Secondo The Economist, se i mercati crollassero con la stessa intensità della crisi dotcom, andrebbe in fumo l’8% del patrimonio delle famiglie americane, cioè 16mila miliardi di dollari, e gli stranieri perderebbero 7mila miliardi. Il crash si propagherebbe immediatamente sui consumi, che sono il motore principale dell’economia statunitense. A quel punto la spesa Usa si ridurrebbe di circa 890 miliardi di dollari, pari a quasi il 3% del Pil.
La morale è sempre la stessa: ogni bolla rimescola le carte. Continueremo a usare l’intelligenza artificiale, come è successo per elettricità, ferrovie e internet. Ma potrebbero vincere modelli diversi, che magari non hanno bisogno di investimenti così stratosferici. Ricordiamoci che DeepSeek, l’IA cinese, funziona sorprendentemente bene – ad una frazione del costo dei rivali americani.
L’articolo Che cosa rischieremmo se scoppiasse la bolla dell’intelligenza artificiale è tratto da Forbes Italia.
